Lost: Dietro al mistero un atto di fede


A mio avviso, l’immagine in alto racchiude perfettamente la serie-evento “Lost”. La prima stagione terminava con la ripresa di due personaggi chiave che osservavano l’interno della ‘botola’, simbolo-ossessione del confronto fra fede e scienza, fil rouge dell’intera serie: l’espressione di John esprime la volontà di portare a compimento il suo balzo della fede; la smorfia di Jack, invece, comunica la frustrazione di un uomo di scienza incapace di dare un senso preciso a tutto, anche all’inspiegabile.
Allo stesso tempo, l’immagine svela anche l’altra faccia della medaglia su cui è basato “Lost”: l’elemento del mistero. Mettendo da parte per un attimo la simbologia summenzionata, il contenuto della botola rappresenta l’interrogativo più importante della prima stagione, tanto agognato quanto procrastinato. La telecamera indugia sulle espressioni dei due amici/rivali e poi scende in basso, rivelando una lunga scaletta, sempre più giù. Quando finalmente il contenuto sta per essere rivelato, la scena si interrompe con un bel ‘to be continued’. Fine. Per la risposta tocca aspettare dopo l’estate.

Probabilmente la scena sopra descritta rappresenta il cliffhanger più irritante che abbia mai visto.
In seguito, a mente fresca, ebbi modo di riflettere sulla causa di tale sensazione. Il problema non consisteva in realtà nell’assenza della risposta al quesito principale della stagione, ma in come la sequenza fosse stata presentata. Basare la serie su uno o due grandi interrogativi è accettabile; disseminare di tante piccole domande le varie storie e risolverle poco alla volta, anche. Ma insistere incessantemente su un unico quesito fra tanti (il contenuto della botola), presentarlo in modo che possa essere la chiave per interpretare il resto degli enigmi, fare in modo che per uno dei protagonisti la sua funzione nella serie è costruita unicamente su di esso e infine inserire un fade out proprio quando la risposta sta per arrivare… beh, questo molto meno.
L’intenzione è quella di giocare sulla simbologia? Ok, allora mi sta bene anche se la botola crolla su se stessa e il suo interno non viene mai svelato; può anche andare se si scopre che la lunga scala non porta a niente. È grave però, almeno dal punto di vista narrativo, lanciare il sasso e poi nascondere la mano, dilatare i tempi per poter interrompere bruscamente la scena proprio quando gli autori stanno per dare una risposta.
Non bisogna essere degli sceneggiatori per comprendere che un buon cliffhanger è rappresentato dalla chiusura di un arco narrativo e dall’apertura di una nuova storyline (dando luogo a una o più trame che dovrebbero stuzzicare l’appetito dello spettatore, ansioso di vedere ‘cosa accade poi’) o quando, semplicemente, la storia principale della serie viene ‘sospesa’ per poi proseguire nella stagione successiva. Assemblare un’intera stagione in modo da far intendere che quel preciso arco narrativo avrà un suo compimento e poi segare via il finale proprio in una sequenza che sembra costruita appositamente per concluderlo, invece, è un modo disonesto per allungare il brodo e fidelizzare lo spettatore. La storia a quel punto avrebbe bisogno di prendere aria e di ricompensare lo spettatore: non si può pretendere di menarlo per il naso per oltre 20 puntate e poi salutarlo a un passo dall’appagamento. E non importa se il momento tanto atteso giunge infine durante la prima scena della stagione successiva (l’intro della season 2 è considerata uno dei momenti più felici della serie): il giochetto ormai è stato attuato, il meccanismo è stato accettato e si può ricorrere a esso ogni volta che ce ne sia bisogno.

Per chiarire meglio, cambiamo esempio.
Immaginiamo un thriller. Un detective deve fermare un serial killer mascherato. Lungo tutta la storia ci vengono forniti continuamente indizi sulla sua identità, e durante le varie indagini risulta chiaro che il killer sia qualcuno di molto vicino al protagonista. L’indagine stessa finisce per diventare, più che un fine per fermare l’assassino, un tentativo per svelare la sua identità. Alla resa dei conti, il protagonista riesce a strappargli via la maschera, ma poi perde i sensi. La telecamera indugia più volte sulla maschera caduta, ma mai viene inquadrato il volto del killer. Al termine della storia siamo praticamente al punto di partenza: l’assassino è fuggito in un’altra città e il detective deve ricominciare da zero. Se ne parla al capitolo 2 (me la sarò davvero inventata questa storia?).
Mi sta bene che il detective non acciuffi il killer, e che la caccia continui negli episodi successivi: semplicemente ‘non’ accetto che si venga stuzzicati con indizi sulla sua identità lungo tutta la storia e perfino provocati con una sequenza finale che sembra voler definitivamente mettere il punto sul quesito sul quale si è tanto insistito, ma che invece lascia lo spettatore con un pugno di mosche. Non si tratta di cattiva scrittura: è semplicemente scorretto nei confronti del fruitore.

Il cliffhanger della prima stagione di “Lost” rappresenta la prima avvisaglia del gioco sporco degli autori, un meccanismo che verrà riproposto praticamente fino al finale della serie.
Non sorprende quindi il trivia (spuntato fuori qualche anno dopo) secondo cui J.J. Abrams (iniziatore della serie) non avesse la minima idea su cosa ci fosse al di là della botola, ma che l’avesse inserita solo perché necessaria alla storia. Niente di male in questo: non è certo un mistero che gli autori usino trucchi del genere (o c’è ancora chi crede alla favoletta di George ‘Avevo tutto in mente dall’inizio’ Lucas?): l’errore, per così dire, sta nel non voler semplicemente limitarsi all’aspetto simbolico dell’elemento narrativo, ma di conferire troppa importanza all’enigma in sé, farlo apparire centrale fino a illudere palesemente lo spettatore di esporre la soluzione da lì a poco, cosa che naturalmente non accade mai. Alla fine dei giochi, è quindi inutile sottovalutare l’importanza dell’aspetto misterioso della serie, in realtà talmente elevata da sfociare nella “Lost Experience”, il riuscitissimo progetto crossmediale che prometteva di chiarire parte dei quesiti della serie.
Abrams, d’altra parte, da grande appassionato di serial ‘criptici’ come “X-Files”, “Twin Peaks” e “Il Prigioniero” (“Lost” è l’incontrollata esasperazione dei loro concept narrativi) deve aver compreso benissimo che porre l’enigma nel modo giusto e farcendolo a dovere sia di gran lunga più importante della sua risoluzione. Parliamo di un autore in grado di generare hype praticamente dal nulla, di scatenare migliaia di teorie mostrando solo qualche fotogramma di un film su un mostro gigante e di trasformare “Star Trek” in una pellicola che cancella decenni di storia (pretendendo anche di essere in continuity) e di farla sembrare una cosa ganza. Parliamo di un genio del marketing capace di realizzare campagne pubblicitarie efficacissime e di sfruttare al massimo le potenzialità della Rete.
Così come con “Alias” (abbandonata nel momento in cui il gioco del rimandare le risposte stava per implodere), al termine della seconda stagione Abrams lascia la patata bollente di “Lost” a due dei suoi collaboratori, Damon Lindelof e Carlton Cuse. La strada era stata tracciata, la serie era ormai un fenomeno mondiale e bastava solo continuare a barare il più a lungo possibile.

Stabilire che Abrams sia un cattivo autore solo per aver fatto leva su meccanismi narrativi poco puliti sarebbe però ingiusto. Il giovane autore newyorkese, infatti, ha più volte dimostrato di saperci fare in fase di scrittura, riuscendo a tratteggiare personaggi interessanti e costruendo drammi e conflitti personali di grande impatto emotivo (qualcuno ricorda l’intenso e commovente “A proposito di Henry”, film con Harrison Ford del ’91? L’unico autore della sceneggiatura è proprio il nostro Abrams, e all’epoca non aveva più di 25 anni [!]).
Né è corretto incolpare l’autore di aver sempre giocato sporco: si pensi per esempio alla ‘Zampa di Lepre’, il corretto MacGuffin di “Mission: Impossible III”.

Tornando a “Lost”, i due nuovi autori, dopo un iniziale momento di smarrimento (i primi episodi della terza stagione) riprendono velocemente il controllo della situazione e proseguono sulla via spianata in precedenza. D’altra parte, la scelta è ovvia: già dopo la prima stagione (molto pregna di enigmi) era probabilmente troppo tardi per riuscire a far tornare i conti correttamente, e inoltre un cambio di rotta si sarebbe quasi certamente tradotto in un crollo verticale degli ascolti (cosa che in effetti accadde proprio in “Twin Peaks” in seguito alla chiusura del mistero su Laura Palmer). Tanto vale quindi non snaturare l’astuto meccanismo su cui è basata gran parte della struttura di “Lost” e riproporlo a oltranza nel modo più intelligente possibile, con l’introduzione di nuovi enigmi usati per coprire quelli vecchi e falsi contentini atti a camuffare quella che in fondo è una vera e propria presa in giro ai danni dello spettatore. Gran parte del fascino di “Lost”, infatti, risiede nel saper costruire misteri affascinanti, resi tali da un sagace utilizzo di indizi volti a far intendere che gli autori abbiano un piano preciso: lo spettatore è quindi invogliato dalla mole di misteri (apparentemente?) scollegati e continua a seguire la serie spinto dalla curiosità di trovare un senso al delirio.
Che sia nel periodo più rilassato della seconda stagione o durante la corsa degli ultimi episodi, agli autori tocca spesso ricorrere alla solita ‘formula’. Lo fanno in modo schizofrenico, inefficace e sconnesso: effetti collaterali dovuti a noie interne (decisioni della produzione, attori indisponibili, adattamenti ‘in corsa’ per venire incontro ai gusti del pubblico), alla volontà di spiazzare smentendo le teorie del fandom e, soprattutto, alla singolare struttura narrativa che non permette la quadratura del cerchio. Da questi problemi gli autori riescono comunque a svincolarsi (almeno temporaneamente) con sorprendente bravura, il che contribuisce a mantenere alti i ‘rating’ d’ascolto (nonostante un certo – fisiologico – calo).

“Lost” riesce quindi a tenere bene, continuando a essere lo show di punta della ABC. Il merito è ovviamente tutto degli sceneggiatori, capaci di camminare sulla fune con incredibile abilità e riuscendo a spiazzare gli spettatori con nuovi twist ed enigmi. Come prima, più di prima: si pensi all’introduzione di un personaggio che poi si rivelerà centrale (Jacob), presentato appunto solo nella terza stagione. Diventa quindi chiaro che gli autori giocano ad aggiungere nuovi elementi di mistero; portano agli estremi la struttura alla base della serie e impilano nuovi interrogativi in modo quasi random, evitando di giungere al dunque pur continuando a lanciare qualche osso allo spettatore. Si tratta, in definitiva, dell’applicazione estremizzata e parzialmente dissimulata del sacro mantra lostiano ‘Ogni risposta condurrà solo a un’altra domanda’.
Come a tranquillizzare il pubblico, gli autori rilasciano anche interviste in cui (con una certa sfacciataggine, se si pensa alla realtà dei fatti) rassicurano di tenere la situazione in pugno e di introdurre un nuovo mistero solo quando la sua risoluzione sia già stata pensata: ogni cosa, affermano, sarebbe stata spiegata ‘verosimilmente’. Per giunta, si spingono anche a indicare particolari enigmi che, quando svelati, avrebbero provato in modo inconfutabile che tutto fosse stato programmato fin dal principio (il caso degli scheletri ‘Adamo ed Eva’). Dichiarazioni che uno spettatore un po’ più disincantato e navigato non può che prendere con le molle, conscio che (specialmente in uno show televisivo) la pianificazione minuziosa di una serie di questo tipo è praticamente impossibile: generalmente si tende infatti a ‘suggerire’ mitologia e universo con vaghi cenni e piccoli indizi da sviluppare – se possibile – solo in seguito e con l’ausilio di un bel po’ di sana improvvisazione e di tanto mestiere (micidiale fu il buon David Lynch che, anni dopo la chiusura di “Twin Peaks”, dichiarò candidamente di non avere la minima idea di dove stesse andando, e che il gruppo stava procedendo ‘a braccio’ per gran parte della seconda stagione).

Prima di passare allo stadio finale della trappola di “Lost”, è bene però aprire una piccola parentesi. Affermare che l’intera trama si basi unicamente sul meccanismo espresso finora non è corretto: pur costituendo una parte rilevante della narrazione lostiana, tale elemento è affiancato e, spesso, messo in ombra dall’anima della serie, ovvero da quell’insieme di fattori che contribuiscono alla componente emozionale.
“Lost” è un serial molto ben scritto, splendidamente recitato e con un buon supporto tecnico/musicale (con le dovute riserve: basti pensare agli FX digitali, spesso imbarazzanti, o alle tante leggerezze nella messa in scena presenti nell’ultima stagione). È un viaggio di formazione umana, un calderone di personaggi memorabili e uno scontro fra diverse filosofie. Il viaggio iniziatico di “Lost” conduce non di rado a momenti elevatissimi di grande intensità (le ‘quest’ di Desmond), sapientemente supportati da un indovinato mix di generi e da un’intelligente e credibile evoluzione delle varie personalità (su tutti il personaggio di Jack) che conta ben poche cadute di stile (l’epifania finale di Shannon e Sayid). L’insieme di tali fattori, che costituiscono la metà dell’esperienza globale di “Lost”, rendono la storia del gruppo di naufraghi assolutamente degna di essere vista e vissuta.
Se ci si concentra solo su questa metà dell’esperienza, infatti, si può analizzare come da questo punto di vista i conti tornino, e che il viaggio dei ‘Losties’ giunga alla sua conclusione con la giusta coerenza. Il lungo episodio finale, pur con tutti i suoi limiti (l’autoreferenzialità ai limiti del buon gusto e la palese spudoratezza di distrarre per l’ultima volta dai vari misteri), è realmente toccante: la chiusura del cerchio è rappresentata in modo degno e, soprattutto, appagante per lo spettatore.
Per contro, non è neanche giusto procedere all’inverso e tentare di giustificare la presa in giro sminuendo l’importanza degli enigmi in favore del lato emozionale appena descritto: ciò significherebbe sottovalutare una buona parte dell’immane lavoro degli autori (non importa se pulito o meno), i quali dimostrano invece di aver puntato moltissimo sul mistero dell’isola, tanto da caratterizzare la serie in base a questo (il che, specie a livello pubblicitario, ha funzionato benissimo e ha fatto impennare gli ascolti).
In altre parole, “Lost” è per metà ‘cuore’ e per metà ‘enigma’: tentare di escludere una delle due metà sarebbe svilente tanto per chi ha scritto la serie che per chi l’ha seguita fedelmente per anni.

Paradossalmente, chi aveva già intuito l’inganno rischia di godersi maggiormente la metà ‘genuina’ della serie, ripulita dai mille enigmi senza risoluzione e dai riferimenti mascherati da indizi. Certo, bisogna accettare di perdersi una bella fetta alla base del divertimento del progetto lostiano, quella che consiste di ‘vivisezionare’ l’episodio per cogliere il più piccolo particolare, di formulare teorie, di confrontarsi con il fandom: il vantaggio è però quello di godersi l’arrosto senza avere la vista annebbiata dal fumo, andare diritti al cuore della serie e seguire il viaggio in modo più viscerale. È però concesso di divertirsi con il gioco malefico degli autori e di constatare le loro oggettive capacità nel saperlo rendere avvincente nonostante si avvalga di una struttura che alla fine mostrerà la corda; oltre a ciò, neanche guasta un po’ di onesto cinismo nell’attendere l’inevitabile momento in cui il prestigiatore rivelerà il trucco.

Per mascherarlo efficacemente si ricorre a una sfilza di soluzioni palliative (le quali aprono a loro volta un ventaglio di nuovi enigmi): cerchiamo di elencarle in ordine crescente di importanza e di incidenza nella serie.
Soluzione realistica. Si tratta forse dell’espediente più ‘rassicurante’, in grado cioè di spiegare il mistero dell’isola senza utilizzare nessun elemento fantastico. Gli autori adoperano la soluzione realistica abbastanza spesso, soprattutto per svelare i punti oscuri delle trame dei personaggi (la struttura a flashback/flashforward permette di srotolare le varie trame in modo inconsueto ma comunque corretto); con un po’ di sforzo, inoltre, si può cercare di dare un senso perfino ad alcuni elementi apparentemente fantastici, bollandoli – per esempio – come allucinazioni. In ogni caso, alcune situazioni appaiono tirate via (per esempio, la ‘Black Rock’ e il suo arrivo sull’isola), ma tali forzature tendono ad accumularsi soprattutto nella stagione finale, ovvero quando sarà presente – come vedremo – ben di peggio.
Comunque, è evidente che questa strada non sia in grado assolutamente di spiegare l’inspiegabile: per continuare a barare in modo efficace, gli autori devono alzare il tiro.
Soluzione fantascientifica. Qui le cose cominciano a farsi più contorte e sofisticate. Inserire la fantascienza in “Lost” poteva sembrare un azzardo: sorprendentemente, invece, qualche conto comincia a tornare, le cose acquisiscono quasi un senso e la fiducia negli autori è in parte rinnovata. Anche se a volte pretestuosa (i salti nel tempo ‘a singhiozzi’) o grottesca (il pendolo di Eloise), la soluzione sci-fi è generalmente usata con intelligenza e soddisfa diversi enigmi apparentemente indecifrabili. Dall’elettromagnetismo (in effetti già presente dalla seconda stagione) alle ‘costanti’ di Faraday, fino ad arrivare ai classici paradossi temporali: certamente non tutto può essere spiegato, ma perlomeno sembra che venga fornita una chiave di lettura dalla quale si può partire.
La deriva fantascientifica, solo accennata nei primi anni, esplode letteralmente nella quinta stagione (concentrata soprattutto sulla storyline della Dharma), nella quale trova posto anche quella che è probabilmente la trovata migliore della serie. I flashback e i flashforward, infatti, diventano parte integrante della narrazione e non più un modo per raccontare due momenti distinti: i protagonisti si ritrovano divisi in due gruppi e in due punti diversi nel tempo ma narrativamente contemporanei. Geniale.
Purtroppo però, che sia a causa dell’accelerazione improvvisa che accumula spiegazioni piuttosto che misteri (il che in un certo senso rovina un po’ il carisma della serie), o invece per i continui ricorsi fantascientifici (forse troppo pesanti da digerire per parte del pubblico lostiano), durante la quinta stagione lo show comincia a perdere colpi e gli autori devono fare i conti con il calo di ascolti. In ogni caso, l’espediente sci-fi è in grado di risolvere alcuni misteri lasciati sullo sfondo (a uso e consumo dei fan e delle loro mille teorie) e non di rispondere alle grandi domande di “Lost”.
Urge quindi cambiare approccio.
Soluzione fantasy. Spiegare un grosso mistero ricorrendo all’approccio smodatamente fantastico rappresenta spesso una soluzione di comodo che il pubblico – non a caso – può interpretare come insoddisfacente. In virtù di ciò, per gran parte del tempo gli autori si limitano solo a suggerire una natura fantasy, almeno fino all’ultima stagione in cui tale elemento si manifesta preopotentemente in decine di deludenti spiegazioni che hanno il compito di chiudere (almeno apparentemente, come vedremo) gli enigmi principali. Posto così, l’approccio fantasy si rivela anni luce meno raffinato di quello fantascientifico (contorto ma più appagante) adoperato in precedenza.
Risolvere l’immortalità di Richard con ‘gliel’ha conferita un essere superiore’ (senza spiegare in che modo) o liquidare le apparizioni mistiche grazie a una creatura capace di assumere diversi aspetti sarebbe già abbastanza per far storcere il naso. Ma il massimo viene raggiunto nelle battute finali, in cui a un uso veramente discutibile e semplicistico dell’elemento fantasy (la ‘luce’ magica che significa tutto e niente, la nascita del fumo nero, le apparizioni immotivate di luoghi e personaggi) si aggiunge una messa in scena goffa e ridicola (il rituale mistico per il ruolo di guardiano).
Solo lo spettatore più plagiato e fedele, a questo punto, rifiuta di scorgere il bluff degli autori: in ogni caso, comunque, la solidità dello schema è – nella sesta e ultima stagione – definitivamente danneggiata e l’efficacia della serie ne risente moltissimo. Ma non è finita qui.

È interessante ora notare come, nonostante i vari artifizi sopra citati, il concept narrativo resti comunque sempre uguale a se stesso: la varie ‘soluzioni’, insomma, non fanno altro che procrastinare l’inevitabile ammissione di colpa da parte degli autori. Il giochetto, allungato oltre ogni limite per sei lunghe stagioni, ha oramai creato troppe discrepanze e illogicità per poter permettere un’uscita, se non vincente, quantomeno decorosa. Le risposte date hanno la funzione di distrarre lo spettatore, di girare intorno al punto (senza mai centrarlo direttamente) per confonderlo e continuare a rimandare la sua presa di coscienza: esse non si limitano a condurre ad altre domande, ma (salvo qualche eccezione) finiscono anche per danneggiare irreversibilmente la coerenza narrativa interna.
Non resta quindi che accogliere con un ghigno le nuove dichiarazioni – ben più ‘paracule’ che in precedenza – rilasciate dagli autori poco prima della fine, in cui affermano che non tutte le risposte saranno date e che il finale sarebbe potuto non piacere a tutti. Ed ecco che vengono spazzate via tutte le promesse in un solo colpo.

Quando la resa dei conti è oramai alle porte, Lindelof e Cuse si appellano infine a due grosse soluzioni-pretesto con le quali sperano di temporeggiare e, infine, di crearsi un’uscita da una struttura narrativa costruita per non averla: un paio di paraventi collocati ai margini opposti del racconto lostiano.
Soluzione ‘ignoranza da parte dei personaggi più caricati’. Dalla prima apparizione di Desmond, passando per Benjamin fino ad arrivare al semi-divino Jacob, “Lost” ha sempre caricato alcune figure chiave come – apparenti – custodi della verità. Nella fattispecie, durante la serie vengono presentati continuamente dei personaggi che sembrano essere in cima alla piramide gerarchica, dei ‘pezzi grossi’ che agiscono con l’aria di chi conosce tutti segreti (eludendo puntualmente ogni domanda) e che, infine, si rivelano essere mere pedine di qualcuno più in alto di loro. Ogni volta che si pensa che quella cima sia ormai stata raggiunta, ecco spuntare un altro personaggio che riduce il suo ‘vassallo’ a un semplice e ignorante esecutore di ordini impartiti da qualcun altro, senza dargli alcuna spiegazione. Ciò accade praticamente lungo tutto l’arco della serie, e se può apparire degradante vedere un personaggio carico di mistero e di fascino ridursi a un ignaro e stordito succube, può certamente generare frustrazione osservare questa situazione riproporsi continuamente al solo scopo di rimandare le risposte chiave.
Sul finale, però, le carte devono essere necessariamente scoperte. Di fronte alle domande continue di un personaggio, l’ultima figura presentata come superiore demiurgo (la ‘Madre’ di Jacob) risponde semplicemente ‘Ogni risposta porterà solo ad altre domande’, chiudendo così ogni dialogo: in quell’istante, gli autori stanno parlando direttamente agli spettatori, comunicando loro che è inutile aspettarsi delle soluzioni, perché la spirale di enigmi è potenzialmente infinita e non verrà mai risolta. Prendere o lasciare.
Ma allora qual è il mistero dell’isola? Qual è il senso di “Lost”?
Soluzione ‘atto di fede’. La soluzione fatalista è il tentativo finale del duo di consegnare una chiave di lettura convincente all’immenso mosaico: si tratta naturalmente di una ‘gabola’, di un cheat code usato come ultima spiaggia quando la trama, già più volte compromessa, deve necessariamente essere chiusa. È una scappatoia che va a braccetto con quella appena sopra descritta: i personaggi pedina, infatti, agiscono unicamente spinti dalla fede, che sia in una persona, in una missione o in un bene superiore.
Fino a quel momento la serie era costruita in modo da far credere che esisteva una risposta per tutto: ora – nel momento più critico – ti avvisa che non c’è alcuna risoluzione. Siamo nuovamente di fronte al famoso cliffhanger della prima stagione, ma questa volta è palesato, annunciato chiaramente.
Vedere come gli autori tentino di dare un senso ai tanti enigmi insoluti e alle varie incongruenze con un’ultima trovata disperata farebbe perfino simpatia, in una situazione normale. Purtroppo però l’elemento della fede viene presentato in modo eccessivamente subdolo, ovvero fingendo che sia parte del messaggio della serie stessa: attraverso il personaggio di Jack, gli autori disegnano infatti una – credibile – evoluzione che va da una persona col desiderio di comprendere, di essere libera di scegliere e di andare contro il disegno imposto (un uomo di scienza), a una figura che progressivamente si trasforma in una sorta di consapevole e remissivo prescelto dal destino (un uomo di fede). È la sconfitta definitiva del razionale di fronte all’inspiegabile: si accettano passivamente le regole imposte dall’alto e si gioca il ruolo deciso dal fato. Fino all’ultimo ci si illude che esista una soluzione, ma non è così: l’uomo è destinato a restare ignorante e ad agire solo in base alla cieca fede. Il libero arbitrio è usato solo come facciata, ma in realtà si rivela un orpello a cui rinunciare nel momento in cui si comprende che si è un burattino che non può capire e non può fare domande. La fede vince sulla scienza.
Naturalmente, tutto ciò non rappresenta una vera soluzione. Non esiste il ‘non detto’, non c’è un finale aperto, non è possibile interpretare niente: il senso finale è che lo spettatore deve solo accettare in silenzio e con la testa abbassata il gioco disonesto messo su dagli autori. Per ‘fede’.
Per finire, il tanto pompato ending in chiesa rovina quello che c’era di buono nell’idea dei ‘flashsideways’ con un ultimo colpo di coda alla ricerca della sorpresa a tutti i costi che conferma ancora l’arroganza degli autori, fra riferimenti ruffiani (la vetrata coi simboli di diverse religioni), momenti pacchiani (la grande ‘luce bianca’) e perfino un pizzico di tardiva autoironia (la battuta su ‘Christian Shepard’).

Siamo quindi giunti al termine di questo (lungo!) ragionamento. A conti fatti, e al di là dell’effettiva qualità dello show, la struttura narrativa di “Lost” è come una serie di impalcature ben assemblate atte a coprire un edificio che, in realtà, non è mai esistito.
Il punto focale sta nel rendersi conto che il ‘problema’ di “Lost” non risiede nell’assenza di risposte (d’altra parte, come si può pretendere di avere delle risposte se non sono mai state previste?), ma nel concept narrativo volutamente disonesto e senza uscita che punta a tener buono lo spettatore e a tergiversare fino all’inevitabile crollo del castello di carte. La critica agli autori sta quindi nell’aver abusato di una narrazione poco corretta nei confronti del pubblico e di aver utilizzato meccanismi più subdoli che astuti con i quali ingannarlo e confonderlo al fine di nascondere la truffa.
Qualcuno a questo punto potrebbe dire che ‘il viaggio sia più importante della destinazione’ e non avrebbe tutti i torti: nessuno ha intenzione di sminuire l’importanza di “Lost”, né di criticare la qualità della scrittura (che, come già detto, è invece molto elevata). A livello concettuale, però, bisogna riconoscere che la serie illude e prende in giro ripetutamente lo spettatore per più di 100 episodi, venendo così meno a una delle leggi più sacre delle opere di ingegno: il rispetto verso il proprio pubblico.

Torniamo infine all’immagine emblematica in apertura.
Osservandola ancora, si può dire che la telecamera sia decisamente girata nel modo giusto. La botola è aperta. C’è chi nutre grosse speranze sul suo contenuto, c’è chi è scettico; c’è perfino chi ne è spaventato. Purtroppo però la scala è lunga e il passaggio è buio.
Nessuno, né noi spettatori né i poveri Jack e John, sapranno realmente cosa diavolo c’è lì sotto.

Nota: per i maniaci degli enigmi, a questo indirizzo si può trovare una lunga (ma incompleta) lista che raccoglie le domande senza risposta della serie.

[IT?] La serie, come prevedibile, ha anche generato un tie in videoludico, “Lost: Via Domus”. A suo tempo scrissi una recensione che potete trovare cliccando qui.

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Categories: Nonsologiochi

avatar Gnupick

2 Responses to “Lost: Dietro al mistero un atto di fede”

  • avatar Simone ha detto:

    Valutazioni interessanti!
    A proposito del esempio iniziale, il killer descritto mi ricorda molto Il macellaio di Nip/Tuck!

    • avatar Gnupick ha detto:

      Il Macellaio sì che era epico! 😀
      Mi riferivo invece a qualcosa di molto meno elevato, il killer di Still Life (avventura Microids) 🙂 .


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