Alan Wake

Alan Wake è un romanziere di grande successo. Colto dall’immancabile ‘blocco dello scrittore’, decide di rifugiarsi in cerca di ispirazione nella semplice cittadina di Bright Falls, Washington, portando con sè la sua compagna – nonché musa – Alice. Una sera, però, strani eventi cominciano a verificarsi nel cottage nel quale la coppia dimora e, nel tentativo di salvare la moglie dall’annegamento, Alan si risveglia in quello che sembra essere un incubo, nel quale la città è inondata da una Presenza Oscura che ha posseduto gran parte degli abitanti. Fra immaginazione e realtà, Alan deve combattere l’oscurità della spettrale Bright Falls con l’unica arma che possiede: la luce.

Incompleto. È questo il termine che meglio può definire “Alan Wake” (2010) della Remedy Software, la software house finlandese che nel 2001 aveva già lasciato la sua impronta nella storia videoludica con l’icona “Max Payne”. Dopo circa sei anni di gestazione, il nuovo progetto appare più volte come un’ombra di ciò che avrebbe dovuto essere, un azzardo che forse la piccola Remedy non è riuscita a sostenere, facendo il passo più lungo della gamba.

Il primo impatto con Bright Falls non delude.

Ciò che si ha di fronte è un classico action-adventure di buona fattura, intervallato da alcune sequenze stile film interattivo che hanno il compito di portare avanti la trama. Ed è proprio nel gameplay che si palesa il difetto più evidente del prodotto. Per gran parte del tempo, infatti, Alan deve farsi strada dal punto A al punto B attraverso un gran numero di ‘posseduti’, con pochissime e comunque insoddisfacenti variazioni. Ora, sebbene il modello di combattimento risulti sulle prime interessante e abbastanza originale (è possibile colpire i nemici solo dopo aver distrutto la coltre difensiva di oscurità puntando contro di loro una torcia elettrica), manca una vera evoluzione nella giocabilità e, nonostante esista la possibilità di accedere ad armi più efficaci (come i razzi di segnalazione o i bengala), dopo poche ore si è già visto tutto ciò che il gioco ha da offrire.
Il tempo necessario a completare il titolo (circa 10 ore) risulta di conseguenza eccessivo e provoca inevitabilmente un calo della tensione psicologica: forse qualcosa di più condensato avrebbe ridotto la ripetitività del gameplay e allontanato la noia.

Il peculiare sistema di combattimento costringe a ‘mirare’ con la torcia elettrica per rendere vulnerabili i nemici. Molto interessante, peccato però che nel gioco non si faccia praticamente nient’altro.

Probabilmente, la struttura lineare sempre uguale a se stessa ha rappresentato una sorta di scappatoia nel periodo in cui il progetto ha rischiato la cancellazione, ed è possibile scorgere qua e là alcuni indizi che danno l’idea di ciò che “Alan Wake” sarebbe dovuto essere: il frequente backtracking, l’alternarsi del giorno e della notte (graficamente notevole) e le blande sessioni di guida (durante le quali si attraversano zone tremendamente deserte) svelano infatti la forte impronta free roaming che era stata originariamente prevista.
Di fronte alla piattezza generale del gameplay, i due episodi speciali (DLC su console) spingono al massimo il concept lineare e risultano essere i più riusciti, grazie a passaggi più vari e complessi che permettono di affrontare i nemici in modo più ‘creativo’.

La forma scelta per narrare la vicenda odora anch’essa di idea abortita: “Alan Wake” è composto da sei episodi (otto se si includono i DLC) strutturati come quelli di una serie tv, con tanto di ‘previously on’ e cliffhanger finali: forse, se il titolo fosse stato distribuito in episodi mensili, ci sarebbe stato modo non solo di fidelizzare il giocatore e lasciarlo col fiato sospeso fino alla ‘puntata’ successiva, ma anche di ammortizzare la ripetitività di base. Così com’è, invece, il tutto appare piuttosto superfluo.

Gli episodi speciali (venduti come DLC su console) sono caratterizzati da una trama meno intrigante ma scontri più vari e avvincenti. In questo caso, i fuochi artificiali tengono a bada un vero e proprio assedio di Posseduti.

Dal punto di vista dell’intreccio, i Remedy si avvicinano al soggetto in modo non dissimile a quanto avvenuto in “Max Payne”, a cominciare dalle ammiccate sul nome del protagonista (‘Wake’) e al trigger che scatena gli eventi (un dramma riguardante la moglie), fino ad arrivare ai richiami alla mitologia norrena. Sicuramente apprezzabile è l’idea di interpretare un personaggio – come uno scrittore, appunto – umanissimo e saturo di fragilità, ma purtroppo la sceneggiatura sembra preoccuparsi più dei dettagli, inserendo un’overdose di influenze (le più evidenti: i serial “Twin Peaks” e “Ai Confini della Realtà”), rimandi letterari e non (l’opera di Stephen King su tutti), easter egg e autocitazioni, piuttosto che cercare di stabilire una propria identità narrativa.
A essere onesti, anche il vecchio “Max Payne” condivideva un racconto strutturato in modo simile, ma in generale l’approccio ‘caciarone’ e l’intreccio semplice riuscivano a stemperare la scarsa freschezza narrativa più di quanto faccia l’atmosfera seriosa da horror psicologico di “Alan Wake”.
A ciò si aggiunge un’eccessiva tendenza al criptico che, se da una parte rende bene i tormenti del protagonista, dall’altra concentra le progressioni della trama o la spiegazione dei passi più nebulosi in momenti in cui l’attenzione è rivolta altrove, facilitando la confusione generale.

Se si riesce a effettuare una schivata col giusto tempismo si assisterà a un effetto molto simile al ‘bullet time’ di “Max Payne”. Un altro retaggio del passato.

Nonostante ciò, la storia (scritta ancora da Sami Järvi, qui accreditato come ‘Sam Lake’) riesce a sfoderare qualche bella trovata (la ‘stanza ben illuminata’, la funzione del ‘clicker’, il testo della canzone come hint per la mossa decisiva) e parecchie immagini altamente suggestive che manifestano il riuscito piglio ‘cinematografico’ che ci si aspetta dai Remedy.
Cruciale si rivela essere la grafica, che dà il suo meglio negli eccezionali giochi di illuminazione e ombre, tanto che finisce per pesare ancora di più il cambiamento in corsa del gameplay: poter esplorare liberamente Bright Falls avrebbe infatti rappresentato un’esperienza davvero unica.
Particolare invece la gestione della telecamera, che a volte segue il personaggio in modo diverso e influenza anche il controllo, ma dopo un po’ ci si fa l’abitudine.
Infine, ottimo anche il sonoro, che può anche contare su una colonna sonora che ospita brani di autori noti (come David Bowie, Depeche Mode, Nick Cave) e un paio di pezzi originali (fra cui vale la pena citare la ballata ‘The Poet and the Muse’).

Alan (interpretato dall’attore Ilkka Villi, da cui gli autori hanno replicato le caratteristiche somatiche per il protagonista) partecipa a un falso talk show. L’altro ospite è l’autore di “Alan Wake”, Sam Lake, che ci regala la caratteristica smorfia alla Max Payne (in passato aveva ‘interpretato’ Max nel primo episodio della serie).

Alan Wake” è un titolo caratterizzato da ottime premesse e da un’esecuzione non all’altezza. A dispetto di tutti i suoi difetti, il gioco trasuda eleganza, mestiere e passione da tutti i pori, e riesce a esaltare la figura del protagonista in vista di altri capitoli del franchise.

     

La citazione:
Alan: C’è la luce e c’è l’oscurità, c’è causa ed effetto, c’è il peccato e c’è l’espiazione. Ma tutto deve essere in equilibrio. Tutto ha un prezzo.

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Categories: videogiochi

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