Daughter of Serpents

Appena sbarcato nell’Alessandria degli anni ’20, il protagonista di “Daughter of Serpents” assiste a una scena a dir poco agghiacciante: un passeggero turco viene assassinato da un misterioso assalitore che, freddato a colpi di pistola dalla polizia, si trasforma in una creatura simile a un rettile. Fra spaccio di droga, contrabbando di reperti archeologici e bellezze esotiche, il nostro eroe si trova coinvolto in una vicenda strettamente legata all’omicidio, che condurrà anche all’evocazione di semidèi con le manie di grandezza.

Edito nel 1992 e successivamente ripubblicato in versione cd talkie con il nome di “The Scroll”, “Daughter of Serpents” è un titolo difficilmente incasellabile. Il prodotto di Richard Edwards e Chris Elliot (Eldricht Games) ripesca alcune idee dal loro precedente lavoro, l’avventura testuale “The Hound of Shadow”, come gli elementi lovecraftiani e l’ambientazione di inizio Novecento: l’analogia più importante riguarda però la minuziosa personalizzazione del protagonista, che va dai dettagli anagrafici fino alla selezione di alcune fra le oltre venti specializzazioni previste (fra cui investigazione, egittologia, occultismo e tanto altro). Tale feature è la base attorno a cui ruota l’idea di film interattivo di “Daughter of Serpents” e, sebbene sulla carta appaia interessante, l’idea risulta in realtà proposta in forma eccessivamente vaga e frammentaria, costringendo il giocatore a scelte troppo dettagliate chiedendosi, di fatto, cosa cambi fra una sotto-specializzazione e l’altra (il processo di editing verrà poi estremamente semplificato nella versione cd “The Scroll”, riducendo la scelta a sole due professioni).

La schermata delle professioni. Ogni campo si divide in altre quattro o cinque specializzazioni. Dispersivo.

Ciò che realmente lascia perplessi è l’apparente ininfluenza di tale operazione nell’economia del gioco: mai avremo l’opportunità di adoperare le ‘skill’ peculiari del nostro personaggio, mai il gameplay seguirà in qualche maniera le nostre scelte iniziali.
Infatti, le differenze si scorgono solo in qualche dialogo secondario (perlopiù semiautomatico), in piccoli approfondimenti aggiuntivi e, soprattutto, nel modo in cui si sviluppano alcune situazioni di una trama che, comunque, non cambia nella sostanza (per esempio, durante l’avventura si potrà essere accompagnati da due partner diversi).

 

L’inventario. Gran parte dello schermo è occupato da oggetti inseriti alla rinfusa. In alto a destra si accede alla mappa del gioco, in basso a destra si apre il diario del protagonista e all’estrema destra si consulta l’enciclopedia che conduce anche alla schermata delle opzioni. All’estrema sinistra si apre la schermata di combinazione oggetti o si attiva l’esamina dell’oggetto selezionato, mentre per uscire bisogna cliccare in alto. Se non è tutto chiaro non preoccupatevi: è anche peggio di così.

Nonostante tutto, la personalizzazione del protagonista resta l’intervento più incisivo da parte del giocatore e l’intera struttura ludica è orientata a far scorrere la storia con meno intoppi possibili (gli enigmi sono praticamente assenti).
A giustificare tale scelta ci si aspetterebbe un focus maggiore su tutti gli aspetti al di fuori del gameplay, ma purtroppo tali aspettative sono disattese. Innanzitutto, l’intreccio appare come un pot-pourri mal amalgamato di eventi collegati fra loro attraverso infiniti monologhi o lezioni di storia tutt’altro che interessanti. La personalità sostanzialmente nulla del nostro avatar non aiuta (qualunque siano le scelte iniziali), ma infastidisce soprattutto l’assenza pressoché totale di qualsiasi caratterizzazione nei comprimari: in un’avventura perlopiù basata sui dialoghi (ben poco interattivi, peraltro) il difetto appare particolarmente grave, e dopo il terzo lunghissimo e incolore spiegone la palpebra tende ad abbassarsi inesorabilmente.
Inoltre, la lunghezza ridotta dell’avventura (due-tre ore di gioco) non permette l’approfondimento di nessuno degli aspetti della schizofrenica trama. In pratica si assiste a una vicenda fredda e confusa in cui si racconta troppo e si mostra pochissimo, caratterizzata – paradossalmente – da una successione di eventi troppo rapida che non riesce mai a essere lontanamente intrigante.

Ehm… signorina Elytis, lo sa che la sua affermazione è leggermente equivoca?

L’interfaccia, inoltre, sembra fare di tutto per irritare il giocatore. Aprire il (pessimo) inventario a tutto schermo o conservare ciò che si raccoglie appare piuttosto scomodo, ma è davvero un’inezia in confronto al processo di manipolazione degli oggetti (è addirittura necessario aprire una room apposita) o al semplice salvataggio della posizione, per la quale si è obbligati a navigare in un libro contenuto nell’inventario e successivamente a scegliere dal suo indice la voce esatta che apre la schermata delle opzioni. Senza senso.
La qualità media del sonoro e la grafica delle scene e dei personaggi, interamente disegnati a mano, non riescono a risollevare la situazione. Infine, è da segnalare un adattamento in italiano non certo perfetto e con qualche incompletezza (i testi integrati alla grafica sono rimasti senza traduzione).

Il tizio al centro non è un demone lovecraftiano, ma semplicemente l’assistente del nostro partner con una luce sparata in volto.

L’impostazione di “Daughter of Serpents”, per certi versi, si rivela in anticipo sui tempi, ma la realizzazione non è all’altezza. Una maggiore cura generale e un’attenzione particolare alla qualità della narrazione avrebbero probabilmente conferito al gioco un valore storico ben diverso.

     

La citazione:
Nyarlathotep (forse): Sono maestro e messaggero. A coloro che cercano io porto saggezza e conoscenza. Tu hai cercato la conoscenza. Saprai cosa c’è oltre.

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Categories: videogiochi

avatar Gnupick

One Response to “Daughter of Serpents”

  • avatar Alchemic ha detto:

    Davvero un’ottima e sincera recensione! 🙂

    Come tanti altri titoli, questo videogame fa parte della mia infanzia videoludica e non riesco a criticarlo del tutto. Ha pur sempre l’alone di mistero di un’avventura, seppur caratterizzata da un’impostazione piuttosto sconnessa.

    ..Però è proprio vero che l’inventario è improponibile, com’è anche vero che il sistema comunicativo dei balloons non si adatta affatto bene alle lunghissime spiegazioni, risultando in fine snervante. Da un lato ero tentato dal leggermi tutti i riferimenti storico-mitologici, ma il fumetto (per giunta, non cartaceo, senza possibilità di tornare indietro) risulta troppo lapidario per trasmettere contenuti complicati. Il tutto, coronato da una scarsa e (quando possibile) banale attività d’interazione.

    Mi hai strappato un sorriso in riferimento alla citazione finale. Dici proprio bene: “Nyarlathotep (FORSE)”. Graficamente, il carisma del “signore delle tenebre” ha un suo perché, da piccino ne ero spaventatissimo – però a causa della fretta dell’esposizione a fumetti, risulta molto difficile riuscire ad associarlo a quel nome o ad attribuirgli un’identità più precisa.

    Oh beh. 🙂 Ho fatto un piccolo tuffo nel passato. Grazie!


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