Future Wars

Correva l’anno 1989, il Commodore 64 aveva iniziato il proprio declino, l’Amiga dominava il mercato, seguito dall’Atari ST, e i PC non erano ancora le macchine da gioco che oggi conosciamo. Non si erano ancora conclusi i dorati anni ’80, la Sierra aveva già sfornato un numero considerevole di avventure – è vero – ma il genere delle avventure grafiche punta e clicca come lo conosciamo oggi era ancora giovane, praticamente neonato: la Lucasfilm Games aveva sconvolto il mondo con “Maniac Mansion” e “Zak McKracken”, e… nulla più.
In questa stagione pionieristica, la Delphine Software, casa francese divenuta poi piuttosto prestigiosa, diede a Paul Cuisset la chance di realizzare il proprio sogno creativo, ovvero scrivere e programmare un’avventura grafica in piena regola, tra l’altro una delle primissime in Europa: “Future Wars”. Inoltre, se dobbiamo credere alle dichiarazioni ufficiali, Cuisset aveva iniziato nel 1986 a progettare un suo sistema, chiamato Cinématique, per trasformare le avventure testuali in avventure… grafiche, un nuovo tipo di interfaccia che non richiedeva più l’inserimento di comandi di testo e che immergeva il giocatore nell’ambiente di gioco. Una rivoluzione cui proprio in quell’anno si stava apprestando anche la Lucas con “Labyrinth”, per C64, mentre all’orizzonte si profilava il sistema SCUMM, il primo ad avvicinarsi a quell’obiettivo.
Quello descritto è uno scenario del quale è impossibile non tenere conto nel formulare un giudizio su questo pezzo di storia del software, i cui difetti, giudicati col senno di poi, alla luce della smaliziata consapevolezza di cosa una buona avventura grafica debba essere, appaiono gravi e imperdonabili: all’epoca, invece, un prodotto come questo lasciava sorpresi, emozionati e appagati.

Il capo sembra furioso, ma niente di quello che potrebbe farci si avvicina a ciò che realmente ci accadrà!

Cuisset aveva un sogno, quello di dare vita a una vera e propria serie di avventure nel tempo da trasporre nel medium della graphic adventure: il modello ispiratore, neanche tanto nascosto, erano le avventure seriali della Sierra, almeno dal punto di vista della scansione episodica. La serie non venne mai proseguita e si fermò a questo one-shot comunque memorabile.
La storia. Siamo nel presente, nel 1989, e il nostro ruolo nella vita è – incredibile a dirsi – quello di un lavavetri. Probabilmente il protagonista socialmente più umile che si fosse mai visto. Le nostre peripezie hanno inizio sull’esterno di un grattacielo, di cui stiamo lavando le vetrate. E qui, nella prima locazione del gioco, facciamo conoscenza con lo stile grafico ispirato e ricco di personalità di Eric Chahi, che qualche anno dopo darà vita, tutto da solo, al celeberrimo “Another World”. Il talentuoso grafico d’oltralpe ci mostra in maniera estremamente suggestiva un’intera metropoli riflessa nella parete di cristallo del palazzo: l’inquadratura è dunque chiusa, piatta e frontale, e tuttavia questo espediente la rende inaspettatamente ariosa. All’epoca i videogiocatori rimanevano molto colpiti da soluzioni ‘artistiche’ simili. Tra l’altro, questa immagine iniziale sembra compendiare bene l’intera storia, il contrasto tra i limiti di un uomo qualsiasi, col suo piccolo e ristretto mondo, e il mondo esterno, ampio eppure fino ad allora vissuto solo… in un riflesso, appunto.
Un’estasi artistica senza fine? Purtroppo no. Il primo impatto con l’interfaccia utente del gioco, infatti, rivelava – e rivela oggi in maniera ben più drammatica – limiti e scomodità non indifferenti, delle quali parleremo più avanti.
Il nostro eroe per caso finisce presto negli uffici che si trovano dietro i vetri esterni che stava lavando, per poi fare una scoperta sconvolgente: in una stanza c’è nientemeno che una macchina del tempo, la cui attivazione avviene ovviamente nel giro di poche semplici azioni, catapultandoci nel Medioevo. Banale come ambientazione, indubbiamente; e tuttavia il tema del viaggio nel tempo ha un fascino incontestabile e possedeva, a quel tempo, una certa freschezza narrativa.
Si tratta però solo di una tappa intermedia in un viaggio in realtà molto, molto più lungo che ci porterà presto nel remoto futuro, un 44° secolo nel quale l’umanità è in lotta con razze aliene pronte a invaderci ricorrendo a un piano diabolicamente geniale che qui naturalmente non sveliamo. Anche perché se c’è qualcosa di godibile, pur nella macchinosità dei dialoghi e dei testi da leggere a schermo, è proprio la storia. È la storia (pura sci-fi escapista e avventurosa) a farci dimenticare tutte le magagne tecniche del gioco e a trasportarci in un universo dotato di un certo fascino.
Possiamo già sentenziare, sempre con il nostro senno di poi, che Paul Cuisset era sicuramente molto più abile come sceneggiatore che come game designer.
Questa affermazione è suffragata anche dal fatto che lo svolgimento dell’avventura è quanto di più lineare si possa concepire: non c’è traccia di bivi, soluzioni alternative o finali multipli. Tutto si svolge in maniera programmata e ogni deviazione dai modi e dai tempi previsti conduce alla morte. Non solo: un altro difetto oggi inconcepibile è che molti degli oggetti raccolti sono destinati ad essere utilizzati ben più avanti nell’avventura; se si tralascia di prenderli è impossibile farlo in seguito (anche perché spesso si trovano in un’altra epoca!) e la loro assenza conduce su binari morti senza che nessuno avvisi il giocatore. Soluzione a portata di mano, dunque, per chi voglia evitare di girare a vuoto per ore in maniera frustrante prima di realizzare che manca qualcosa e che occorre un restore.

'Solo l'uomo penitente riuscirà a passare'?

Abbiamo accennato a un’interfaccia scomoda e ricca di difetti. Vediamola un po’ più in dettaglio.
Il tasto destro del mouse richiama un menu delle azioni a scomparsa, poiché la grafica occupa l’intero schermo (nell’ovvia bassa risoluzione dell’epoca); e questa è una sorpresa tutt’altro che scontata, vista l’epoca, dal momento che rivedremo qualcosa del genere in casa Lucas – ad esempio – solo nel 1995 con “Full Throttle”.
Ma qui finiscono le note positive della GUI. Alcuni degli oggetti con i quali è possibile interagire appaiono ingranditi in primi piani racchiusi in riquadri che vanno a sovrapporsi allo scenario, per la semplice ragione che quasi tutti gli hotspot sono minuscoli, addirittura singoli pixel. E sono proprio gli hotspot uno dei difetti più marchiani di “Future Wars”: il flagello divino del pixel hunting è uno dei limiti che maggiormente penalizzano l’esperienza di gioco generando ancora una volta frustrazione.
Sarebbe poi una pia illusione quella di credere che l’interazione con un oggetto lontano – posto che sia abbastanza grande e sia stato identificato – si traduca nel movimento verso quell’oggetto e nella conseguente azione: ci sentiamo invece rispondere, con un retrogusto da avventura testuale, che siamo troppo lontani e dobbiamo prima avvicinarci. Altri tempi. La parentela con le text adventures si ravvisa anche nel fatto che le interazioni da menu appaiono nella barra delle azioni come frasi composte da verbo + oggetto. Nulla di strano per l’epoca, anzi, visto che questa caratteristica si ritrovava ancora nelle prime versioni dello SCUMM.

E dopo il Medioevo... il Medioevo postatomico!

Il tasto sinistro che gestisce il controllo diretto dei movimenti dello sprite del protagonista ci regala presto – abituati come siamo a cursori intelligenti, scorciatoie e comodità d’uso – un’altra amara delusione: non essendo implementate routine di pathfinding (che permettono allo sprite di aggirare intelligentemente gli ostacoli), ogni movimento dovrà essere propiziato da click verso punti visibili in linea retta rispetto a dove ci si trova; e se si vuole girare intorno a un albero non basta cliccare al di là di questo, ma occorre farsi seguire da vicino dallo sprite con una serie di passaggi intermedi: i segmenti dei tragitti complessi, insomma, ce li dobbiamo fare noi uno ad uno. Questo limite tecnico, all’epoca forse accettabilissimo, appare all’avventuriero di oggi qualcosa di assolutamente inconcepibile, irritante e più di una volta capace di ostacolare la prosecuzione del gioco, anche sapendo perfettamente cosa fare e dove andare. Capita di dover indovinare in un terreno accidentato traiettorie non visibili.

Vogliamo parlare della facilità con cui si muore? La sfida offerta da “Future Wars” come avventura in senso stretto, possiamo dirlo, non è particolarmente considerevole; e forse anche per questo si scelse di mettere in pericolo di vita il protagonista a ogni piè sospinto, sia con ostacoli da evitare con movimenti precisi al pixel, sia con sezioni arcade e/o a tempo; spesso… a secondi, da affrontare con un uso smodato del savegame e con mappe, nel caso dell’ultima sequenza.

Le stazioni della metropolitana nel 4315 sono luoghi deserti e... ehy, ma questa non è la fermata della Faccia di Marte?

Il comparto sonoro è estremamente povero, perlomeno riguardo la versione PC testata: il gioco è sostanzialmente muto. Le musiche sono poche e rudimentali e gli effetti arricchiscono solo sporadicamente l’azione, e quando lo fanno si rischia un salto sulla sedia data la loro crudezza e violenza sonora.
Molto ma molto meglio vanno le cose dal punto di vista grafico. Il lavoro di Chahi, come già accennato, è ispirato e tecnicamente apprezzabilissimo, sebbene ancora un po’ acerbo, specie nella realizzazione degli sprite: piccoli e spesso mal definiti. Per tutto il gioco faticheremo a farci una chiara idea di quale sia il reale aspetto del nostro protagonista. Un altro difetto piuttosto irritante è che in numerose sezioni dell’avventura i pur piacevoli scenari sono ristretti a porzioni di schermo da francobollo; esperienza scioccante all’inizio del gioco, appena superata la bella locazione iniziale: il contrasto con i minuscoli uffici è stridente e deprimente.
Anche le animazioni sono piuttosto povere di frame. Dunque persino dal punto di vista grafico le cose vanno male? No, decisamente no. Sempre per riportare tutto nella corretta prospettiva storica ed essere onesti nel giudizio, occorre dire che “Future Wars” offriva semplicemente la più straordinaria grafica che si fosse mai vista in un’avventura punta e clicca, in parte eguagliata in quei mesi da “Loom”, il quarto capolavoro della Lucasfilm Games, il primo a compiere quel salto di qualità nel comparto estetico che, appunto, solo il nostro “Future Wars” stava compiendo in parallelo.

E dopo tanto viaggiare nel tempo, perché non viaggiamo un po' anche nello spazio?

Attribuire un voto, oggi, a “Future Wars” è particolarmente arduo; il motivo principale è che va sempre più allargandosi la forbice tra la bellezza del gioco al tempo dell’uscita e la sua improponibilità oggi. In sostanza, l’avventura di Cuisset è una sorta di splendida diva del cinema invecchiata molto, molto male.
Considerandone la portata se non rivoluzionaria quantomeno innovativa nel 1989, e tenendo conto che chi vi si accosta oggi lo fa solo mosso dalla curiosità dell’appassionato cultore del punta e clicca, possiamo assegnare alla prima prova della Delphine un 70%.

     

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Categories: videogiochi

avatar Boba Fonts

3 Responses to “Future Wars”

  • avatar aquiladacciaio ha detto:

    Gran bella recensione, che condivido in gran parte, avendo rigiocato di recente questa avventura old school. Aggiungerei che la traccia musicale del titolo e’ eccezionale, da ascoltare nella versione Amiga o Enhance PC Cdrom. Grazie

  • avatar aquiladacciaio ha detto:

    Nota tecnica: la versione CD gira su DOSBox selezionando la modalita’ VGA e settando i cicli tra 300-500 di modo da non produrre il fastidioso lampeggio della schermata 😉

  • avatar aquiladacciaio ha detto:

    La versione DOS floppy gira su ScummVM con il supporto Roland MT-32, tuttavia il sonoro non è all’altezza della versione Amiga.

    Per la parte finale del gioco consiglio di procurarsi la mappa, altrimenti saranno solo improperi 🙂

    L’atmosfera è magnifica in questo titolo.


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