New York Crimes

New York. Le pagine dei giornali sono occupate dalle stragi di un serial killer di senzatetto che brucia vive le sue vittime. Il giovane Henry White, membro di un’associazione che si prodiga per aiutare i meno fortunati, si avventura insieme all’amico Cooper in una zona considerata molto a rischio, la stazione della metropolitana di Cadway. Catturato da una coppia di mendicanti che minacciano di ucciderlo, il ragazzo riesce infine a cavarsela grazie all’aiuto dell’amico.
Sei anni dopo, Henry ha ereditato un’immensa fortuna e si batte per migliorare le vite dei bisognosi. All’interno del suo ufficio convoca un uomo colpito da una grave amnesia, tale John Yesterday, un esperto di scienze occulte che era stato ingaggiato da Henry stesso per indagare su un gruppo satanico noto come l’Ordine della Carne. Solo ricostruendo la memoria di John sarà possibile fermare un assassino che sottopone le sue vittime a terribili rituali che ricordano proprio le efferate azioni dell’Ordine.

Il bell’incipit narrativo dà luogo ad aspettative destinate a essere disattese. La location dei manichini, comunque, resta la più interessante del gioco.

A distanza di appena un anno da “Hollywood Monsters 2”, i Pendulo confezionano a tempo di record un’avventura che rappresenta in qualche modo una personale ‘prova di maturità’ del team iberico, noto per aver sviluppato prodotti generalmente leggeri con buone dosi di umorismo. Nel 2012, con “New York Crimes” (infelice titolo usato solo per il mercato italiano e spagnolo, mentre altrove il gioco è uscito con il più interessante e ambivalente “Yesterday”), il team capitanato dal solito Ramón Hernáez tenta la strada del thriller a tinte forti, ma purtroppo la rispettabilissima scelta di evolvere il proprio linguaggio e di intraprendere percorsi alternativi si scontra rapidamente con uno dei problemi storici degli autori, ovvero l’incapacità cronica di scrivere una sceneggiatura degna di questo nome.
Come gran parte delle produzioni Pendulo, infatti, l’avventura appare schizofrenica sia nella struttura dell’intreccio che nel tono adottato e, soprattutto, estremamente derivativa: le (troppe) influenze conferiscono alla narrazione un andamento discontinuo e spesso impersonale, un pot-pourri di ispirazioni che non riesce mai a essere omogeneo ma che piuttosto cammina costantemente sul filo del plagio.

Le immancabili autocitazioni dei titoli Pendulo non mancano. È anche presente un finale segreto che vede il ritorno del protagonista di “Runaway”.

I primi inciampi si percepiscono successivamente al prologo, in cui si controllano a turno prima Henry e poi Cooper. In seguito al (comunque efficace) colpo di scena iniziale, la storia subisce infatti una grossa battuta d’arresto durante la sequenza nell’ufficio, in cui avviene una lunga conversazione di circa un quarto d’ora che riempie il giocatore di informazioni e di background. Qui si manifesta un immediato distacco col nuovo avatar, John, a causa di una serie di menzogne che l’inconsapevole protagonista dà per buone: lo spettatore, proprio in virtù del twist avvenuto poco prima, è invece un passo avanti e quindi non può verificarsi alcun rapporto di empatia nei suoi confronti.

Cooper è perseguitato dalle umiliazioni subite da ragazzino. Gli effetti sulla sua psiche si noteranno presto.

Procedendo con la storia risulta impossibile non osservare il saccheggio compiuto in “New York Crimes”. Fra location alla “Broken Sword” ed echi danbrowniani, su tutti spiccano – così come accadeva nel terzo episodio della serie di “Runaway” – le fortissime influenze del cinema di Quentin Tarantino: narrazione non lineare, sadiche torture, ritiro e apprendistato da un saggio erudito. Viene perfino replicato il motivetto fischiettato ossessivamente (“Kill Bill”) e, in maniera quasi sbalorditiva, il finale di uno dei film di Indiana Jones (non basta l’ammiccata ai giocatori a salvare la situazione).
Il vero problema non deriva particolarmente dalla sfacciataggine con cui i Pendulo generano ripetuti deja vu, ma dalla scelleratezza con cui le ispirazioni vengono assemblate – senza un vero motivo, senza compattezza: il tutto sembra costruito ‘tanto per’, seguendo un flusso casuale di situazioni che rispecchiano gli interessi cinematografici (e non) degli autori.

La sequenza dell’incontro fra Henry e John è eccessivamente dilatata e per niente interattiva.

La barcollante scrittura è caratterizzata da frequenti salti narrativi e da un ritmo iperbolico che non consente pause. Di conseguenza, sia le vicende che i personaggi – protagonista incluso – scivolano via senza lasciare il segno e i tentativi di creare del mistero attorno alla figura di Yesterday nonché di sviluppare una timida sottotrama avventurosa (la storia dell’Ordine della Carne) si perdono in un finale in cui tutte le risposte vengono infine elargite nel modo peggiore e meno verosimile: un lungo, freddo e anticlimatico dialogo.

La violenza visuale e la follia di alcuni personaggi si scontrano con la grafica cartoonosa, creando un effetto grottesco e vagamente disturbante.

A voler essere completi, nel gioco non si rinuncia comunque a un pizzico di umorismo, ma il suo inserimento appare, francamente, un po’ gratuito (come nella già citata sequenza del ‘ritiro spirituale’).

A dispetto dell’approccio non lineare alla storia, il game design procede invece su binari precisissimi: se si esclude la possibilità di assistere a tre finali diversi, infatti, l’avventura è costituita da camere stagne di due o tre room alla volta, con un livello di difficoltà che punta decisamente verso il basso.
Non mancano comunque alcuni puzzle eccessivamente dilatati e fuori contesto, come quello in cui bisogna recuperare dell’acqua oppure l’enigma della tastiera musicale.

John non avrà che dei flash riguardo al suo passato con Pauline. C’è da capirlo: la ragazza non è dotata di una gran personalità.

Curiosi i cambiamenti all’interfaccia. Volendo probabilmente risparmiare sulla grafica, i programmatori scelgono di visualizzare gli hotspot (non dotati di una descrizione) attraverso un riquadro/vignetta all’interno del quale è possibile interagire con l’oggetto o il personaggio senza che vengano mostrate particolari animazioni: il sistema è  intuitivo e anche esteticamente piacevole, ma costringe a un inutile click in più. Meno comprensibile appare invece l’impreciso e scomodo utilizzo degli oggetti dell’inventario, che vanno ‘trascinati’ dal loro riquadro/icona fino al punto desiderato tenendo premuto il tasto del mouse.
È anche presente la consueta possibilità di evidenziare gli hotspot sullo schermo, ma anche in questo caso si è deciso di complicare inutilmente la feature, mostrando le zone in successione piuttosto che contemporaneamente.

La (doppia) sequenza dal monaco risulta appiccicata e decisamente poco credibile. Per gran parte del tempo, il game design imporrà di fare acrobazie insensate per recuperare un po’ d’acqua, nonostante il posto sia circondato dalla neve.

Per quanto riguarda l’aspetto grafico, infine, “New York Crimes” si assesta, come tradizione Pendulo, su livelli molto alti, con un uso abbastanza oculato e frequente di vignette e fermi immagine. Da sottolineare che la violenza di alcune scene si scontra con la grafica cartoon, provocando uno stile visivo quantomeno peculiare.
Nulla di particolare da segnalare sul lato musicale, mentre il lavoro sull’adattamento italiano si presenta meno curato che in precedenza e peggiora quello – già con qualche sbavatura – svolto per “Hollywood Monsters 2”, dimostrando una scarsa conoscenza del gioco e l’assenza di una revisione approfondita: la localizzazione mostra infatti parecchi refusi (con un testo che a volte non combacia con il parlato) e una traduzione non sempre corretta, mentre spesso il tono della (buona) recitazione appare errato. È bene evidenziare che si è comunque di fronte  a un livello ampiamente nella media, ma la Fx Interactive aveva abituato a standard molto meno appannati.

L’enigma degli scacchi è un esempio della linearità ‘invadente’ del design. Non è possibile dare la risposta errata, bisogna semplicemente cliccare fin quando non si azzecca la soluzione.

Nonostante possa contare su un soggetto certamente intrigante, “New York Crimes” non riesce a portare i Pendulo al livello superiore. L’impressione che si ha osservando l’intera produzione del team iberico è che, se si esclude il particolare stile grafico e qualche approccio umoristico più riuscito, Hernáez e soci sembrino – ancora – solo un gruppo di simpatici nerd che riversano nei propri lavori le passioni individuali, senza quel piglio personale che li renderebbe veri autori.

     

La citazione:
John: Quante persone hai ucciso?
Henry: Non molte. Circa 50. O il doppio, contando te.

Nota: La cover utilizzata in Spagna e in Italia è davvero poco rappresentativa (chi sarebbe il tizio nell’immagine?). Decisamente più efficace, invece, la locandina alternativa (in basso), pubblicata anche su Mobygames.

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Categories: videogiochi

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