Non è sempre un gioco…


In etologia, psicologia, e altre scienze del comportamento, per gioco si intende una attività volontaria e intrinsecamente motivata, svolta da adulti, bambini, o animali, a scopo ricreativo. Nella lingua italiana, la parola “gioco” viene anche impiegata in modo più specifico, riferendosi ad attività ricreative di tipo competitivo, e caratterizzate da obiettivi e regole rigorosamente definiti”.

La suddetta definizione è riportata su Wikipedia. Sebbene, per stessa ammissione dei moderatori, l’argomento sia molto complesso e descrizioni del genere appaiano per forza di cose insoddisfacenti, se ci fermiamo alla prima parte riusciamo a ottenere un’idea generale circa il significato di ‘gioco’ secondo la quale non è indispensabile l’elemento competitivo o della sfida.

È da qualche tempo che assistiamo ad alcuni esperimenti di tipo videoludico che tentano di esplorare nuove strade annullando, o riducendo in modo significativo, l’elemento della sfida. Non è niente di davvero nuovo, chiariamoci, ma ultimamente sembra che questa tendenza stia prendendo piede con più convinzione rispetto al passato, probabilmente anche grazie al florido mercato indie.

L’assenza di veri e propri problemi da superare rende quasi inevitabile l’utilizzo di qualche escamotage volto a catturare l’attenzione del giocatore o, per meglio dire, del ‘fruitore’. C’è quindi chi preferisce coinvolgerlo attivamente con l’ausilio di bivi narrativi (gli ultimi titoli di David Cage), mentre c’è invece chi priorizza l’esplorazione (“The Path”), il mistero e il fascino delle ambientazioni (“Dear Esther”), l’aspettativa (“Dinner Date”), la visione dell’autore (il free “The Passage”), etc.

Personalmente, è da un bel po’ che ritengo che possano esistere altri validissimi elementi per riuscire a confezionare qualcosa di interessante, senza ricorrere necessariamente alla creazione di sfide da superare. In particolare, credo che il videogioco (mai definizione fu più stretta) possa utilizzare il suo elemento distintivo, l’interazione, per riuscire a raccontare qualcosa con maggiore efficacia rispetto a un altro medium più ‘convenzionale’. Pur essendo solo una teoria, non si può certo negare che la maggior parte dei titoli vengono rigiocati non per la loro difficoltà nel portarli a termine ma per poter rivivere il tipo di esperienza (in un genere come l’avventura grafica si parla appunto di assistere o, meglio, di ‘interpretare’ nuovamente una storia che abbiamo amato, in modo non diverso da ciò che accade rileggendo un libro).
E non è neanche un caso che nei miei ‘assoli’ di design in “Star Wars: Shadows of the Empire” mi sia appunto mosso in questa direzione, cercando cioè di esaltare il racconto e l’interazione piuttosto che il livello della sfida.

È quindi davvero possibile ‘spogliare’ il videogioco di quello che è uno dei suoi tratti distintivi? Mi auguro che presto riceveremo una risposta definitiva a tale questione, ma probabilmente basta ragionare un po’ sul passato per ottenere perlomeno qualche indizio: nonostante il primissimo videogioco sia stato un gioco di tennis, infatti, successivamente non ci siamo trovati fra le mani solo dei titoli sportivi. È quindi abbastanza chiaro che finora abbiamo solo scalfito la superficie di un medium molto giovane e che ha ancora molto da dire. Ma magari alcune ramificazioni si discosteranno così tanto che non si parlerà più di videoGIOCO.

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avatar Gnupick

One Response to “Non è sempre un gioco…”

  • avatar Gabriele ha detto:

    Sono d’accordo. Sono molto incuriosito da questi sempre più frequenti esperimenti che si discostano rispetto ai canonici generi videoludici (seppure in alcuni casi riusciti solo a metà) e penso anch’io che il medium videoludico sia in realtà pieno di potenzialità tutte da esplorare, e questo nonostante molti (anche addetti ai lavori) sostengano invece che il videogioco “ha già detto tutto”. La realtà è che i grossi publishers preferiscono di gran lunga restare su terreni conosciuti per paura di raggranellare meno soldi. Tuttavia noto un certo fermento nel mercato indipendente e spero che una nuova ondata di programmatori giovani possa portare una ventata di aria fresca in un mercato per certi versi stantìò come quello dei videogiochi “tripla A”. Ma anche se ciò non accadesse (per quanto riguarda i giochi più “grossi”) sui giochi più “piccoli” sono molto speranzoso e sono convinto che vedremo dei lavori che allargheranno di molto la gamma di ciò che prima si pensava potesse essere “videogioco” (soprattutto dal punto di vista narrativo), sebbene preveda che questo termine (in certi casi abbastanza inappropriato) sarà duro a morire.


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