Gabriel Knight 2: The Beast Within

In seguito agli oscuri omicidi voodoo narrati in “Gabriel Knight: Sins of the Fathers”, lo scrittore Gabriel Knight si è trasferito da circa un anno in Germania, a Rittersberg, all’interno della ex dimora dello zio Wolfgang Ritter. Nel castello, appartenuto alla famiglia da generazioni, Gabriel accetta con riluttanza il suo pesante retaggio da Schattenjager (‘Cacciatore di Ombre’), cercando nel frattempo la solitudine necessaria per lavorare al suo prossimo libro.
Una sera, però, il signor Huber bussa alla porta del castello chiedendo aiuto a Gabriel, considerato lo Schattenjager in carica dopo la morte di Wolfgang: pare infatti che dalle parti di Monaco si aggiri una terribile creatura, già autrice di diversi omicidi. Secondo Huber, ciò che rende questo caso adatto a un Cacciatore di Ombre è la possibilità che la suddetta creatura possa essere un licantropo.
Gabriel, pur con un certo scetticismo, decide di occuparsi del problema e si trasferisce alla fattoria degli Huber, non prima di aver aggiornato e rassicurato la sua amica Grace Nakimura, rimasta a New Orleans a occuparsi della sua libreria. Ma il giovane Schattenjager non ha previsto che il caso si rivelerà molto più pericoloso del previsto, e avrà bisogno ben presto di tutto l’aiuto dell’intelligente studentessa, la quale, in ogni caso, proprio non accetta di essere lasciata in disparte…

Gabriel tenta invano di proseguire con la stesura del suo prossimo romanzo. Ma presto avrà un nuovo caso da cui trarre ispirazione...

Gabriel Knight 2: The Beast Within” (conosciuto anche come “The Beast Within: A Gabriel Knight Mistery”) si presenta nell’anno 1995 come un sequel dalla veste completamente nuova: abbandonati gli sprite pixellosi di “Sins of the Fathers”, si passa a video girati con attori reali e sfondi digitalizzati. Tali caratteristiche fecero rientrare il gioco nella categoria dei ‘film interattivi’, un settore su cui la Sierra Entertainment puntava molto e su cui si perfezionava fin dal pioneristico “Phantasmagoria” di Roberta Williams.

La presenza dell’autrice di “Sins of the Fathers”, Jane Jensen (ancora una volta sceneggiatrice e game designer), rappresenta un gradito sollievo per il videogiocatore, comprensibilmente dubbioso e preoccupato dal cambio di rotta estetico optato dalla software house. La scrittrice, infatti, riesce perfino a superarsi, proponendo una sceneggiatura ancora più elegante rispetto a quella del primo gioco, arricchendola e intrecciandola con una validissima sottotrama storica (con le solite spruzzate di sovrannaturale) e un deciso approfondimento del rapporto fra i due protagonisti.
Da quest’ultimo punto di vista, infatti, la novità che subito balza all’occhio è la promozione della studiosissima Grace a co-protagonista. In termini di gameplay, il motivo della scelta è presto detto: indossare le vesti della giovane ‘secchiona’ invita ad un approccio ben diverso dall’investigazione pratica in senso stretto che caratterizza i metodi di Gabriel, donando al titolo una marcia in più. In altre parole, con Grace si ottiene un’avventura più riflessiva, che comporta (fra le altre cose) la lettura di molti documenti storici, la visita a importanti strutture architettoniche del posto e un duro e minuzioso lavoro di ricerca.

La mappa della metropolitana di Monaco consente di raggiungere velocemente una locazione. In basso a destra è possibile attivere l'hint che suggerisce in quali luoghi c'è ancora da investigare.

Sul fronte narrativo, il protagonismo di miss Nakimura si traduce in uno storytellling più ricco e profondo, che culmina nella descrizione del difficile rapporto con il nostro Schattenjager. Durante i primi minuti di gioco, una Grace indispettita dalla lettera di Gabriel (nella quale scriverà, fra le righe, che desidera lasciato in pace) lascia il suo lavoro alla libreria per raggiungerlo a Rittersberg e seguirlo durante le indagini. Arrivata sul posto, sarà costretta a scoprire da sola la natura del caso, cercando di fornire tutto l’aiuto possibile attraverso una serie di comunicazioni postali puntualmente ignorate da Gabriel. Da lì a poco scoverà un legame fra i casi di licantropia di Monaco e il ‘Black Wolf’, un lupo mannaro vissuto nell’800 ai tempi del regno di Ludwig/Ludovico II di Baviera. Le ricerche di Grace si concentreranno proprio sulla storia del bizzarro e affascinante monarca, la cui esistenza è stata caratterizzata dalla profonda amicizia con la regina Elisabetta d’Austria e, soprattutto, con il compositore Richard Wagner. La relazione di Grace nei confronti della vicenda non si limiterà però al semplice studio: la ragazza infatti instaurerà presto un legame di profondo rispetto e compassione verso la romantica e tormentata figura di Ludwig II, morto annegato in circostanze misteriose.
È anche grazie a questi dettagli che si può apprezzare il talento della Jensen, il cui approccio narrativo rende emozionante e coinvolgente perfino quella che in fondo è una – seppur intrigante – ricerca storica, riuscendo nel compito di amalgamare elementi reali con quelli prettamente fantastici. L’autrice americana, inoltre, centra l’obiettivo di non far pendere eccessivamente l’ago della bilancia verso la ricerca: alle traversie di Gabriel, infatti, viene dedicata la medesima attenzione.

Von Glower e Gabriel si stringono la mano di fronte a un allibito Xavier. Inizio di un amicizia o di guai?

Naturalmente, non ci si ferma qui. Il percorso evolutivo della studentessa di origine asiatica è ben preciso, e ricorda un po’ alla lontana quello di Gabriel in “Gabriel Knight: Sins of the Fathers”. Inizialmente, infatti, Grace stabilisce un irritante rapporto di rivalità con Gerde, la governante di casa Ritter: la causa scatenante è un forte sentimento di possessione/gelosia nei confronti del giovane scrittore. I suoi sfoghi (molto più aggressivi di quelli accennati in “Sins of the Fathers”), che a volte sfociano perfino in un linguaggio volgare, non la rendono certo simpatica agli occhi del giocatore: d’altra parte, la tridimensionalità dei personaggi costruiti dalla Jensen consiste anche nel saperli rendere umani e tutt’altro che perfetti. E così, come Gabriel nella prima avventura, anche Grace finirà per far presto i conti con la sua personalità, e sarà costretta a migliorarsi per riuscire a dare realmente una mano alle indagini.

Il castello dei Ritter è antico e nasconde ancora qualche segreto.

 Lo stesso Gabriel non delude, tratteggiato questa volta come un eroe riluttante, ma deciso ad affrontare ciò che dal suo titolo consegue. Felice anche la scelta di modificare la condizione economica del nostro prode: in seguito alle ricchezze prelevate nell’honfour voodoo del primo gioco e, soprattutto, dopo le ottime vendite del suo libro ‘Voodoo Murders’ (liberamente ispirato alla precedente vicenda), Gabriel ha infatti un portafogli molto più pesante del solito. Ciò si rivela un dettaglio marginale che regala un ennesimo – anche se lieve – sviluppo del personaggio, esempio di come si tenga conto del nuovo background e non ci si adagi su una personalità sempre statica che viene riproposta senza alcuna variazione in ogni avventura.
Durante le sue indagini, inoltre, il nostro eroe dovrà vedersela con un tema piuttosto complesso, la repressione degli istinti naturali dell’animale uomo, scatenato dalla seduzione verso il barone Friedrich Von Glower, probabilmente il personaggio secondario più riuscito dell’intera serie.
Altri personaggi di rilievo sono il posato e affascinante Preiss, a cui purtroppo viene dedicato poco spazio, e il burbero commissario Leber, che sostituisce il grasso detective Mosely.

Il taccuino di Grace è fondamentale per fare il punto della situazione. A volte, la giovane studentessa si lascerà andare a commenti... personali.

A proposito dell’intreccio, parlando più in generale, si può affermare che la narrazione sia intrigante, avvincente, misteriosa e magistralmente gestita, risultando per molti versi migliore di quella (già più che egregia) del primo episodio della serie. Più spazio è dedicato all’approfondimento del rapporto fra Gabriel e Grace, descritto da un inconfondibile tocco femminile come romantico e affettuoso, ma non stucchevole, lasciandolo saggiamente sullo sfondo.
A voler essere pignoli, si può trovare una piccola caduta di tono proprio negli ultimi minuti dell’avventura, con un ending un po’ sbrigativo e non molto convincente sia dal punto di vista della scrittura sia da quello squisitamente ‘cinematografico’.
Non si può però non menzionare la famosa e incredibile sezione (lunga quasi dieci minuti) del pre finale: la messa in scena dell’Opera Perduta di Wagner. La musica potente, il montaggio indovinato, l’ottima recitazione e il crescendo mirabolante, regalano una sequenza travolgente e ricca di pathos (nonostante l’effettaccio in computer graphic presente durante gli ultimi secondi).

Gabriel si pavoneggia in tv parlando con la stampa. Riuscirà nel suo scopo di attirare l'attenzione della polizia?

Si è già detto come “Gabriel Knight 2: The Beast Within” sia ascrivibile nel genere dei film interattivi (ovvero il top della tecnologia visiva della metà degli anni ’90, così come “Sins of the Fathers” spremeva a fondo i mezzi tecnici di pochi anni prima), e anche uno dei più riusciti: sotto questo profilo, infatti, si può dire che sia fra i più convincenti di casa Sierra, anche se siamo ben lontani dal massiccio spiegamento di mezzi che si può riscontrare, per esempio, nella serie di “Wing Commander”.
Il passaggio dai pixel di “Sins of the Fathers” agli attori in carne ed ossa di “The Beast Within” può sembrare, sulle prime, un po’ spinoso. In realtà, nonostante il totale cambiamento estetico, il gioco è un titolo della serie “Gabriel Knight” a tutti gli effetti: alla mancata continuità visiva si risponde con una precisa coerenza stilistica e narrativa. Gli eventuali problemi di adattamento, quindi, spariscono dopo poco.
Con 3 milioni di dollari di budget previsto (ma infine alla produzione ne servirono di più), “The Beast Within” è realizzato ‘incollando’ gli attori su sfondi digitalizzati secondo la classica tecnica del blue screen (con attori che recitano davanti a uno sfondo blu). Il sistema permette l’integrazione di fotografie all’interno dei fondali, dando così l’impressione di avere a che fare con scenografie reali.
Ma si tratta solo di un’impressione, appunto, poiché il risultato – sopratutto al giorno d’oggi – fa quasi tenerezza: le immagini sono inserite spesso in maniera grossolana e il collage è ben lungi dall’essere realistico. Difficilmente, quindi, si ottiene l’effettiva illusione di essere all’interno dei paesaggi germanici riprodotti durante il gioco: uno degli inevitabili problemi scaturiti dalla produzione ‘povera’.
In definitiva, tali fattori e la scarsezza generale di dettagli fanno sembrare il tutto come un lavoro degno di una soap opera: siamo lontani anche dalla cura dei serial televisivi di medio livello.
La regia è firmata da Will Binder, che in passato aveva collaborato alla post produzione di “Scent of a Woman: Profumo di Donna”, pellicola del ‘92 con Al Pacino.

In questo sequel, Gabriel ha modificato in parte il look, abbandonando il lungo cappotto in favore di una semplice giacca.

In un film interattivo, la scelta di un cast adatto è cruciale. Per fortuna, da questo punto di vista, le sorti di “The Beast Within” si risollevano parzialmente. Le comparse non sono poi tantissime, ma i personaggi non giocanti sono piuttosto numerose, con un livello di recitazione generale nella media (se escludiamo alcuni momenti in cui la spartana realizzazione tecnica mette in difficoltà gli attori, che si mostrano poco convinti e imbolsiti). Si è costretti a sopportare la paresi facciale dell’avvocato Ubergrau e le smorfiette di Thomas (il ragazzo dello zoo), ma lo sforzo è ricompensato grazie alle buone performance dell’ubriacone Hennemann, dell’ambiguo Preiss (decisamente sottoutilizzato!), del simpatico sindaco Habermas, dell’invadente Mrs Smith e del rude commissario Leber.
All’arrivo di Peter Lucas nei panni del misterioso Von Glower, comunque, gran parte dei personaggi viene in breve messo in ombra dal talentuoso attore (senza dubbio il migliore fra tutti), il cui sguardo trapassa più volte lo schermo.
Riguardo ai protagonisti, interpreti meno noti e più somiglianti alle loro controparti videoludiche hanno preso il posto dei precedenti Tim Curry e Leah Rimini. L’attrice dagli occhi a mandorla Joanne Takahashi è una buona Grace Nakimura che veste i panni di un’anti femme fatale, caratterizzata da umanissime gelosie, gran forza di volontà e un lato decisamente più dolce e sensibile rispetto al protagonista maschile. In qualche scena più energica (come, per esempio, l’attacco furioso verso Gerde), Joanne è un tantino sopra le righe, ma si tratta comunque di casi sporadici.
Dall’altra parte, abituati alla voce ferma e profonda di Tim Curry si fatica un po’ a riconoscere in Dean Erickson il Gabriel del primo episodio: con quel suo fare gigione e il sorriso obliquo facile, Dean sembra un ragazzo più giovane e, in parte, meno cinico di quello visto in “Sins of the Fathers”. Ma lo spaesamento dura poco, poiché l’interprete dalla divertente faccia di gomma riesce a conquistare dopo pochi minuti, e sembra impossibile immaginare mr Knight con un aspetto diverso dal suo. Dean è anche piuttosto bravo, e se la cava in modo credibile in quasi tutte le situazioni (risultando più versatile di Joanne), regalandoci un Gabriel simpatico, un po’ tronfio e spesso buffo.

Terribili incubi riguardanti Ludwig II e il Black Wolf tormenteranno la povera Grace.

Il doppiaggio in italiano, realizzato in maniera esemplare, sopperisce anche al più grande difetto di Dean Erickson, ovvero la parlata biascicata e oggettivamente poco comprensibile (per fortuna, sia la Takahashi che Peter Lucas si esprimono molto più chiaramente). Non si tratta dell’unico difetto delle voci in lingua originale, poiché una buona fetta degli attori che interpreta personaggi di origine tedesca è in verità americana, e l’accento forzatamente teutonico si trasforma in cadenze a dir poco improbabili.
Tornando al nostro adattamento, si può quasi dire che aggiusti il tiro della versione originale, con inflessioni germaniche stereotipate ma funzionali. La recitazione è inoltre di ottimo livello, grazie probabilmente a una maggiore semplicità nel prestare la voce ad attori in carne e ossa piuttosto che a un mucchio di sprite.
Su tutti, spiccano il sempre affidabile Claudio Moneta nel ruolo di Von Glower, e il simpatico Luigi Rosa in quello di Gabriel. Menzione d’onore anche Silverio Pisu e Maria Grazia Errigo (rispettivamente Henneman e Mrs Smith).
Purtroppo – ma questo potrebbe non essere un problema solo italiano – non sempre l’audio risulta ben sincronizzato alle immagini; inoltre, talvolta si riscontra qualche difetto tecnico, come l’eliminazione di quasi tutti i rumori di sfondo della presa diretta durante il parlato.
Da segnalare infine qualche lieve imprecisione del comunque buono adattamento (un esempio: il nomignolo ‘Gran’ è stato lasciato invariato, piuttosto che venire tradotto più coerentemente con ‘Nonna’).

Von Glower e Gabriel se la ridono alla grande fra una coppa di buon vinello e l'altra. Manca solo una cosa: una biondona compiacente!

La fluidità e la compressione dei filmati, giudicati con l’occhio di oggi, lasciano spesso a desiderare. In realtà, in entrambi si era fatto un bel passo in avanti dal poco precedente “Phantasmagoria”, riuscendo a inserire molti più filmati rispetto al titolo della Williams, pur riempiendo un CD in meno.
Il gioco consente una risoluzione di 640×480 pixel. Davvero evocativa l’immagine locandina sulla confezione.

Tirando le somme, le riprese con attori reali applicate a “The Beast Within” comportano un grande aspetto positivo e l’inevitabile rovescio della medaglia. La facciata filmica ha il suo fascino, infatti, specialmente in una serie dalla natura stilistica così cinematografica come quella in analisi. Durante i dialoghi e le frequenti – e spesso molto lunghe – sequenze di intermezzo la dinamicità dell’azione ‘da pellicola’ spezza la noia; d’altra parte, il ‘film’ non è sempre convincente, e questo aspetto è reso molto evidente dalle sequenze più elaborate, o generalmente da un comparto tecnico di livello bassino.

Ecco una delle immagini che hanno provocato il bollino 18+ sul gioco. In realtà, le scene gore si limitano a un paio.

Qualche cenno sul sonoro. Mentre gli SFX si presentano nella norma, con discreti rumori ambientali e buoni effetti di primo piano, la colonna sonora è invece di grande impatto: nonostante faccia ancora uso di strumenti campionati, Robert Holmes (autore già dello score di “Sins of the Fathers”) dà il massimo, riproponendo vecchi temi e realizzandone altri ex novo, alcuni dei quali molto evocativi. Naturalmente, il culmine viene raggiunto nella già menzionata Opera Perduta di Wagner, una vera e propria opera lirica teatrale (‘Der Fluch des EngelHart’ – ‘La Maledizione di Engelhart’) composta da tre pezzi uno più imponente dell’altro. Non è quindi difficile immaginare il motivo per il quale la colonna sonora sia stata, in seguito, commercializzata anche per il mercato discografico.

 

Il simpatico Georg darà una mano a Grace per svelare il mistero dell'Opera Perduta di Wagner.

Passando all’aspetto ludico vero e proprio, si scorge subito la classica interfaccia Sierra, che occupa un quarto dello schermo. Il puntatore intelligente consente una sola azione per i poco numerosi hot spot, ma tale semplificazione non deve ingannare: benché la difficoltà media si sia abbassata rispetto a “Sins of the Fathers” (dal quale eredita anche il sistema di punteggio – in realtà molto meno rilevante, poiché le azioni facoltative sono questa volta ridotte all’osso e l’avventura è molto lineare), gli enigmi sono infatti generalmente stimolanti, logici e ben contestualizzati all’interno della trama (a parte rari casi).
Con Gabriel si affrontano puzzle che riguardano soprattutto l’aspetto investigativo e la manipolazione di oggetti nell’ambiente, mentre l’avventura di Grace è caratterizzata dalla lettura di molti documenti e da dialoghi volti a chiarire il corretto affresco storico.
Le differenze dei diversi approcci adottati dai due protagonisti si ripercuotono anche su qualche dettaglio: Gabriel provvede a registrare su nastro tutte le proprie conversazioni (così come in “Sins of the Fathers”: la novità è che questa volta la funzione è anche integrata nel gameplay), mentre Grace appunta tutte le informazioni utili su un pratico taccuino.
Un po’ macchinoso, invece, l’utilizzo dell’inventario, da attivare cliccando un pulsante a lato e da richiudere necessariamente dopo l’azione, pena il blocco di qualsiasi altra operazione.
In qualche occasione è anche richiesto un po’ di tempismo, e non manca un finale dai toni leggermente arcade. Così come in “Phantasmagoria”, inoltre, l’eventuale morte del protagonista attiva una schermata grazie alla quale è possibile tornare indietro subito prima del passo falso.
L’avventura è strutturata in sei capitoli (al posto dei ‘giorni’ di “Sins of the Fathers”). In realtà, la Jensen aveva progettato inizialmente otto capitoli in totale (e almeno in uno di essi si sarebbero indossate le vesti di Ludwig II), ma lo sforamento del budget ha richiesto la cancellazione di due di essi: di conseguenza, il salto temporale fra la quinta e la sesta parte può sembrare un po’ brusco.

Le cose si mettono male, ma Grace è sempre pronta a vegliare su Gabriel.

Per godere appieno “The Beast Within”, è necessario chiudere abbastanza spesso un occhio circa alcuni lati del comparto tecnico. Comunque, il gioco è un must per ogni avventuriero, con una storia splendidamente scritta da uno dei migliori sceneggiatori di avventure che abbia mai affrontato la difficile strada del game design.

     

La citazione:
Von Glower: Che cosa distingue l’uomo da tutte le altre specie sul pianeta? La civilizzazione, ovviamente. Non è poi così male, la società umana, sa. Ma la si è raggiunta pagando un prezzo molto alto. Grazie alla civilizzazione, l’uomo ha perso il controllo di se stesso, la sua percezione sensoriale, il suo istinto, se lei vuole. È diventato grasso e pigro, come una lama smussata e arrugginita.

 

Nota: Dal 2007 è possibile acquistare una riedizione italiana di “Gabriel Knight 2: The Beast Within”. Caratteristiche di rilievo: qualità dei filmati migliorata grazie all’eliminazione dell’interlacciamento video e dati interamente riversati su un unico DVD, anzichè i 6 CD dell’edizione originale.
Discorso a parte per il breve e non molto convincente fumetto che fa da prologo all’avventura, realizzato dagli stessi distributori italiani: essendo una storia non ufficiale, non può essere considerata canone, come invece era accaduto con i fumetti allegati a “Sins of the Fathers”, scritto dalla stessa Jensen.

Nel caso si possiede l’edizione originale, è comunque possibile eliminare l’interlacciamento video grazie alla patch presente su Gabriel Knight 2000.

Segnalo, infine, l’adattamento romanzato di “The Beast Within”, scritto dalla Jensen e mai pubblicato in Italia. È acquistabile su Amazon.

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Categories: videogiochi

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