Il pubblico va sempre accontentato? – Parte 2

A distanza di circa un mese dall’uscita dell’ultimo capitolo di “Broken Sword”, l’arrivo di “Broken Age” permette di effettuare un primo confronto fra i due, attesissimi, lavori. L’ultima fatica di Tim Schafer, pur condividendo con l’opera dei Revolution la suddivisione in due parti e il ritorno di autori rappresentativi per il genere adventure, svetta in quanto a importanza storica, rappresentando il progetto simbolo di Kickstarter che ha dato il via alla ben nota ondata di titoli finanziati col meccanismo del crowdfunding.

La distinzione più netta fra le due opere risiede certamente nell’approccio intrapreso alla base. Infatti, nonostante fosse stato presentata come l’avventura che i nostalgici cresciuti a pane e “Monkey Island” desideravano e un vero e proprio omaggio agli appassionati, “Broken Age” è in realtà un’opera personale e visionaria, frutto della sensibilità di un autore che, pur mantenendo in superficie la promessa fatta ai giocatori/finanziatori, sceglie di sorprenderli piuttosto che adagiarsi sul successo di comodo.
Laddove quindi l’ultimo “Broken Sword” appare ruffiano, insicuro e anonimo, il lavoro della Double Fine è creativo, profondamente spiazzante. Schafer rifiuta il fanservice e consegna un’avventura che, in fondo, di old ha davvero poco, arrischiandosi a raccontare una storia visionaria dalla fruizione non immediatissima e suggerendo la presenza di simbolismi e allegorie fin dalla prima immagine.

È possibile quindi osservare nei due autori approcci diametralmente opposti al crowdfunding: da una parte un Cecil che cerca continuamente di compiacere il fan/finanziatore con brutale insistenza, dall’altra uno Schafer che, nonostante alcune scelte artisticamente derivative, non rinuncia all’autorialità e, anzi, finisce per urlarla a più non posso proponendo quella che forse è la sua opera più personale.

Ciò fa di “Broken Age” un titolo migliore dell’ultimo “Broken Sword”? Sicuramente si tratta di un prodotto creativamente più interessante; è però altrettanto vero che, a fronte di un atteggiamento così illuminato, qualche ombra incombe anche sul gioco della casa americana, perplessità nate in parte proprio da quell’autorialità che si presenta tanto stimolante.

Prima di esprimere giudizi definitivi, è comunque il caso di attendere il completamento di entrambe le avventure.
Nel frattempo, sarà curioso osservare gli approcci degli ultimi due grandi autori del passato, Jane Jensen e Chris Jones, attualmente al lavoro rispettivamente su “Moebius” e “Tesla Effect”.
Fanservice o autorialità?

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